Quando il rapporto sentimentale finisce e la famiglia si “sfascia”, la presenza della lite spinge le persone a ricorrere immediatamente al giudice e quindi ad un processo giudiziario caratterizzato da norme, termini e soprattutto scadenze che rendono la separazione ancora più dolorosa. La mediazione familiare è un intervento professionale rivolto a soggetti in conflitto tra loro e diretto a riorganizzare le relazioni familiari in presenza, nella maggior parte dei casi, ma non esclusivamente, di una volontà di separazione e/o di divorzio sotto la guida di un esperto quale il mediatore. Questo percorso mira al riconoscimento da parte di entrambi i soggetti appartenenti alla stessa famiglia (infatti può riguardare fratelli, genitore e figlio…), dell’altro come interlocutore, affinchè possano diventare negoziatori in grado di investire su se stessi e sull’altro per poter raggiungere accordi positivi per entrambi e, nel caso ci fossero, anche e soprattutto per i figli. Il mediatore familiare è un terzo imparziale rispetto ai contendenti, che ha l’obiettivo di sostenerli durante la fase della separazione, si pone, pertanto, come una risorsa specifica, alternativa al sistema giudiziario, volta a favorire “l’accordo”(negoziazione) di tutte quelle questioni irrisolte e controverse relative alla separazione delle parti. Quest’ultime sono “incoraggiate” dal mediatore a strutturare gli accordi che meglio rispondono alle esigenze di tutti i componenti della famiglia. Il mediatore deve affrontare sia gli aspetti emotivi :
sia gli aspetti più strettamente materiali:
La mediazione familiare:
La Legge 54 dell’8 Febbraio 2006, la prima sull’argomento in Italia, modificando l’art.55 c.c., ha introdotto alcuni importanti aspetti legali per la mediazione familiare introducendo l’affido condiviso. Nonostante la figura del mediatore familiare risulti ancora poco conosciuta nel nostro paese, essa potrebbe avere un ruolo determinante nella difficile e sofferta gestione del conflitto genitoriale troppo spesso portatore di pesanti ripercussioni sui figli soprattutto se minori. Potrebbe, infatti, costituire una nuova “arma” per difendere i figli, sempre più spesso, “strumentalizzati” da genitori accecati da rancori verso l’ex partner e di conseguenza “sordi” alle esigenze della prole. Non è un percorso facile quello che la mediazione ha iniziato, ma come tutte le sfide il fine cui anela ha una funzione determinante nella nostra società per cui si rende necessario andare avanti per poterlo raggiungere.
PAS, DDL PILLON, VIOLENZA ASSISTITA
Non è di facile individuazione la sindrome da alienazione parentale/genitoriale (PAS acronimo di Parental Alienation Syndrome).
La vicenda di Luigi Capasso, il carabiniere che, il 28/02/2018, ha sparato 3 colpi con l’arma di ordinanza, alla moglie Antonietta Gargiulo, da cui si stava separando, ferendola gravemente, ha ucciso le sue 2 figlie, di 7 e 13 anni, nella casa in cui vivevano con la madre a Cisterna di Latina, e poi si è suicidato è accaduta nonostante ci fossero stati molti segnali di allarme sulla pericolosità della situazione. Antonietta Gargiulo lo aveva lasciato, era stata picchiata più volte, aveva paura di lui, aveva cambiato la serratura della porta, aveva presentato un esposto dicendo di sentirsi in pericolo e aveva avvisato i superiori del marito: inutilmente. Anzi, la donna era stata convocata dal commissariato di Velletri perché Capasso aveva presentato un esposto contro di lei e aveva raccontato che la moglie gli impediva di vedere le figlie. Nel racconto di questa storia da parte dei media, era venuto fuori che il carabiniere fosse «legatissimo alle figlie» (che aveva appena ucciso e a cui aveva tentato di togliere la madre), al contrario ci sono molte testimonianze di come le due figlie, avendo assistito alle aggressioni del padre nei confronti della loro madre, ne avessero grande paura. Capasso, nell’esposto in cui accusava la moglie di allontanarlo dalle figlie, aveva fatto implicitamente appello alla cosiddetta “alienazione parentale”, che continua a trovare applicazione nei tribunali italiani durante le cause di separazione e di affidamento dei figli.
La “sindrome” da alienazione parentale venne introdotta per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner, e descritta come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. Secondo Gardner questa sindrome sarebbe il risultato di una presunta “programmazione” dei figli da parte di uno dei due genitori (“genitore alienante”) che li porta a dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore (“genitore alienato”). E’ un incitamento ad allontanarsi da uno dei due genitori, portato avanti intenzionalmente dall’altro attraverso l’uso di espressioni denigratorie, false accuse e costruzioni di «realtà virtuali familiari». Fin dall’ inizio questa teoria fu molto contestata nel mondo scientifico-accademico perchè priva di solide dimostrazioni. Proprio per questo non è nominata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5), che è la principale fonte per i disturbi psichiatrici ufficialmente riconosciuta in tutto il mondo, e non è considerata nemmeno dall’APA (American Psychological Association).
Tuttavia l’alienazione genitoriale – intesa non come sindrome di cui soffrono i minori (PAS), ma come condotta attivata all’interno di una famiglia che si sta sfaldando e che viene ritenuta esistente nel momento in cui i bambini non vogliono più vedere uno dei due genitori (AP) – viene presa in considerazione molto spesso anche nelle aule dei tribunali italiani: diventa cioè un principio in ambito giudiziario a cui si fa spesso ricorso nei casi di separazione conflittuale. Viene considerata una grave forma di abuso contro i bambini che vengono “coinvolti” nelle liti dei genitori. Il rapporto ISTAT 2016 conclama che, per quanto riguarda il tipo di affidamento, negli ultimi dieci anni si è verificato un cambio di tendenza: l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre, dominante fino al 2005, è andato affievolendosi sempre di più fino a lasciare il posto all’affidamento condiviso. Infatti nel 2015, a cui risalgono gli ultimi dati a disposizione, le separazioni con figli in affido condiviso sono state circa l’89% contro l’8,9% di quelle con figli affidati solo alla madre. Per l’invocazione parentale, non ci sono dati di riferimento, ma come ha confermato il giornale Avvenire in un articolo del 2017 e come sostengono molti avvocati, «nove volte su dieci» sono i padri che si appellano a una presunta alienazione parentale ogni volta che non c’è condivisione, da parte dei genitori, sulle scelte da fare per i figli minori. L’Associazione Nazionale “Donne in Rete contro la violenza” (D.i.Re), ritiene che, nelle situazioni di maltrattamento, l’alienazione genitoriale venga utilizzata in modo strumentale «dai padri maltrattanti nelle aule giudiziarie per screditare le donne che in sede di separazione richiedono protezione a favore dei figli che si rifiutano di incontrare il padre perché traumatizzati dai suoi comportamenti violenti». Spesso non solo non si riconosce il trauma dei bambini, ma si colpevolizza la madre, già vittima di violenza, ritenendola autrice di atti di alienazione parentale. A volte tale alienazione rischia di far riferimento a un principio di genitorialità disgiunto da tutto il resto e quindi al diritto alla genitorialità a prescindere dal contesto, anche quando il contesto è violento confondendo la violenza con il conflitto interno a una coppia che si sta separando.
La questione non è affatto controversa a livello internazionale. Infatti, la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, ratificata dall’Italia e in vigore dal 1 agosto 2014, vieta sia l’affido condiviso (art.31), sia la mediazione e la conciliazione (art.48) nei casi di violenza domestica e fissa una serie di linee guida che sarebbero utili nel valutare in generale l’utilità e le funzioni del principio dell’alienazione parentale anche nelle situazioni più sfumate e meno estreme. L’articolo 45 della Convenzione, infine, afferma che nel caso di reati di violenza commessi contro una donna sia prevista «la privazione della patria podestà, se l’interesse superiore del bambino, che può comprendere la sicurezza della vittima, non può essere garantito in nessun altro modo». Tuttavia in molti sono convinti che, in Italia si continui ad applicare la legge ordinaria che segue, invece, il principio della bi-genitorialità con la conseguenza che nei tribunali italiani spesso si concede l’affido condiviso anche in presenza di padri maltrattanti. Troppo spesso di fronte a comportamenti palesemente violenti da parte del genitore (sempre più spesso il padre), non si riesce a dimostrare la pericolosità di quest’ultimo, che poi sfocia, però, in epiloghi tragici. Nelle vicende di separazioni conflittuali c’è tutta una filiera formata dal servizio sociale, dalla consulenza tecnica d’ufficio e dal tribunale che, troppe volte, ha fatto prevalere l’autorità paterna o l’ affido condiviso a tutti i costi, rispetto alla protezione del minore e della donna maltrattata. Nei casi di affidamento particolarmente complicati, il giudice nomina il consulente tecnico di ufficio (CTU), in qualità di “tecnico ausiliario del giudice”, che, per far conoscere al giudice la verità, deve prendere in considerazione diversi fattori: se l’ambiente in cui dovrà stare il bambino è adatto, se c’è sufficiente cura psicologica protezione e stimolazione intellettuale…
Nonostante le “innovazioni” della Convenzione di Istanbul, i tribunali civili non si sono ancora “adeguati” per accertare in modo più o meno immediato il fatto che ci sia stata violenza all’interno del nucleo familiare. Ma la famiglia è cambiata e quindi deve cambiare anche la sua “valutazione”: non è più possibile conservare la relazione in qualsiasi caso di entrambi i genitori con i figli. Partendo dal presupposto di un conflitto, e quindi di un rapporto alla pari che però viene a mancare nel momento in cui ci sia violenza maschile contro la donna, difficilmente si dirà che un padre violento non possa vedere i figli. Purtroppo, sempre più spesso, l’alienazione genitoriale viene a costituire l’arma con cui padri violenti si servono dei figli, per vendicarsi della madre. Può accadere anche che padri, condannati per maltrattamenti in famiglia, dopo essere stati sottoposti ad una CTU, siano riconosciuti incapaci di reagire ad una separazione o, peggio ancora, vittime di accuse menzognere da parte della moglie e ottengano comunque l’affido condiviso. La sindrome da alienazione parentale si è imposta nei nostri tribunali in special modo nei casi di separazione conflittuale carattetterizzati da violenza familiare. Essa prevede di diagnosticare a un genitore, spesso la madre che denuncia abusi su di sé o sui figli, una forma di malattia psichiatrica alienante: i bambini sarebbero plagiati e manipolati contro l’altro genitore. Non la definisce “malattia” il Disegno di Legge Pillon (DDL n.735), ma ottiene, invece, una corsia preferenziale nei procedimenti di separazione e affidamento dei figli. Infatti, oltre alla questione dell’assegno di mantenimento, dei tempi paritetici di permanenza dei figli con ciascun genitore, della doppia residenza, il testo del senatore leghista entra a gamba tesa nelle complesse vicende di violenze consumate dentro le mura domestiche, delicate e dolorose, ancor più se consumate in presenza dei bambini o peggio su di loro. Inoltre se uno dei genitori insiste a opporsi alle frequentazioni del bambino o anche nel caso in cui sia il bambino stesso a rifiutare uno dei genitori, il giudice può stabilire l’affidamento ai servizi sociali e il suo ricollocamento in una struttura protetta dove il minore affronterà “uno specifico programma per il pieno recupero della bigenitorialità”. Questo documento si propone di modificare la norma in vigore per ottenere, nelle separazioni, una bigenitorialità equa sotto ogni profilo: affidamento, mantenimento e costi, tutto suddiviso in misura paritaria tra madre e padre. Il Disegno di Legge Pillon, vuole contrastare l’alienazione parentale, intesa come la condotta attivata da uno dei due genitori (“alienante”) per allontanare il figlio dall’altro genitore (“alienato”), poiché «nelle situazioni di crisi familiare il diritto del minore ad avere entrambi i genitori finisce frequentemente violato con la concreta esclusione di uno dei genitori (il più delle volte il padre) dalla vita dei figli e con il contestuale eccessivo rafforzamento del ruolo dell’altro genitore». Gli articoli 17 e 18 dicono che, se il figlio minore manifesta «comunque» rifiuto, alienazione o estraniazione verso uno dei genitori, «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori», il giudice può prendere dei provvedimenti d’urgenza: limitazione o sospensione della responsabilità genitoriale, inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore e anche il «collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata». L’articolo 9 dice che il giudice può punire con la decadenza della responsabilità genitoriale o con il pagamento di un risarcimento danni le «manipolazioni psichiche» o gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento». E si parla di «ogni caso ove (il giudice) riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori».
Al DDL 735 sono associati altri due atti: il 45 e il 768. Nel primo, presentato da Paola Binetti, tra le altre cose si prevede la sospensione della potestà genitoriale «in caso di calunnia da parte di un genitore o di un soggetto esercente la stessa a danno dell’altro». Modifica poi l’articolo 572 del codice penale, la norma che punisce la violenza domestica: prevede che i maltrattamenti debbano essere sistematici e rivolti «nei confronti di una persona della famiglia o di un minore».
Purtroppo, però, la cronaca continua ad essere caratterizzata da numerosi drammi quali quello del piccolo Federico Barakat che a 8 anni venne ucciso dal padre, durante gli incontri protetti imposti dal giudice su indicazione degli assistenti sociali, nonostante il bambino stesso avesse più volte espresso il desiderio di non vederlo. La madre Antonella Penati aveva subìto una diagnosi di PAS e oggi combatte coraggiosamente per liberare dal bavaglio madri e bambini vittime di violenza, vittime per la seconda volta di quei tribunali che dovrebbero proteggerli. Per i sostenitori dell’alienazione parentale l’unica causa del rifiuto è il condizionamento del bambino da parte dell’altro genitore, invece un rifiuto può avere una molteplicità di cause. Prendiamo l’esempio di un incidente stradale; può essere provocato dalla guida in stato di ubriachezza, ma può essere provocato anche da altre cause come la disattenzione o l’eccessiva velocità. Non si può affermare che tutti gli incidenti stradali siano provocati dall’ubriachezza del conducente; analogamente non si può affermare che tutti i rifiuti di un bambino a incontrare l’altro genitore siano causati da un condizionamento psicologico. Erika Patti è una donna che venne definita “alienante” perché aveva paura per i suoi due figli di 8 e 12 anni, che il padre, dopo la separazione dalla donna e più volte denunciato per stalking, ha ucciso e bruciato poiché aveva ottenuto il permesso del tribunale di tenerli con sè. L’affido condiviso ha ragione di esistere in generale, ma laddove si riscontri violenza (fisica, psicologica...), tale ragione deve venire meno e comunque deve essere “indagata”. L’articolo 337 quater c.c. prevede che l’affidamento esclusivo a uno dei genitori, opponendosi quindi all’affido condiviso, possa essere disposto solo quando l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore, ma non precisa i casi specifici in presenza dei quali il Giudice possa procedere a tale misura, non definendo quale sia questo interesse. Pertanto succede spesso che un uomo violento con la ex moglie, possa essere considerato un papà con pieni diritti, nel caso in cui non abbia mai commesso una violenza “diretta” sul bambino; non considerando,in questi casi, la Violenza Assistita (sancita dalla Convenzione di Istanbul) e cioè che, assistere ai maltrattamenti del padre nei confronti della madre, costituisca una gravissima forma di violenza anche sui figli testimoni impotenti. Il bambino che ha paura del padre, perché ha subito “violenza assistita”, non viene ascoltato e sempre più spesso artefice della sua paura viene considerata la madre, che avrebbe alienato il padre solo “per vendetta”. Gli psicologi, esperti di violenza di genere, spiegano come il combinato del principio della bi-genitorialità a tutti i costi e il ricorso spesso implicito all’alienazione genitoriale, porti da una parte a considerare inattendibile il bambino, e dall’altra a considerare, quasi automaticamente, le accuse contro il genitore violento come il risultato di un processo di alienazione messo in atto dall’altro genitore: «In molte CTU l’impostazione è che – sia che nominino la PAS in via esplicita sia che non la nominino – si parte sempre dal considerare la violenza contro le donne come un conflitto, e le separazioni come conseguenti». La violenza subita dalla donna passa insomma in secondo piano, anche quando il bambino subisce violenza assistita, ed inoltre «Se la donna è resistente alla relazione con un partner violento e teme anche per il figlio, sarà considerata genitorialmente inadeguata perché il genitore adeguato è quello che favorisce la relazione con l’altro, qualsiasi cosa sia successa prima».
Recentemente, però, il Tribunale di Lucca ha sospeso un provvedimento di allontanamento di un minore dalla madre che aveva subìto violenza dall’ex marito e che era stata giudicata adeguata, ma causa di alienazione nella relazione tra il padre e il figlio. Il difensore della donna aveva spiegato che nell’ordinanza precedente «pur avendo una denuncia penale per aver messo le mani al collo della signora per strangolarla davanti al piccolo, lui sembrava non avere alcuna responsabilità, e anzi per il tribunale era lei che alienava il minore impedendogli di vedere il padre. Il bambino era stato dunque allontanato dalla madre e inserito in una casa famiglia». Con l’ordinanza di sospensione dell’allontanamento, il tribunale ha comunque imposto che il bambino debba incontrare il padre alcuni fine settimana e non ha smesso di considerare la madre come alienante. Ci sarà prossimamente un’altra udienza, ma la rete D.i.Re ha comunque accolto positivamente la decisione del tribunale di Lucca e ha aggiunto che «continuerà a denunciare ogni tentativo di utilizzare la PAS contro le donne che denunciano uomini maltrattanti».
Dopo un percorso dottrinale e giurisprudenziale incerto e articolato si può affermare che la Corte Europea e la Corte di Cassazione (Cass. 8/4/2016 n. 6919) con argomentazioni efficaci enunciano un principio di diritto condiviso: non spetta al giudice esprimere giudizi sulla scientificità della PAS; il giudice deve capire e adeguatamente approfondire le ragioni dei conflitti genitoriali utilizzando i mezzi di prova tipici e specifici dei procedimenti di separazione e divorzio, tra i quali in particolare l’ascolto del minore, con la considerazione che la valutazione dell’inadeguatezza di un genitore si deve attestare su elementi attuali e concreti.
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