INSIDER TRADING
Nel mercato mobiliare il prezzo dei beni è determinato dall’incontro della domanda e dell’offerta, ed è direttamente influenzato dall’insieme delle conoscenze offerte agli operatori; motivo per cui le informazioni, in un mercato ideale, dovrebbero giungere sempre tempestivamente e contemporaneamente per tutti.
L’abuso di informazioni privilegiate rappresenta sicuramente un significativo ostacolo alla possibilità di avere un mercato finanziario efficiente, funzionale e paritario.
La possibilità per pochi che ricoprono posizioni di vantaggio di elidere, grazie ad un’asimmetria informativa non giustificata sul piano sostanziale, il rischio connesso alle operazioni speculative, a danno dell’integrità del mercato e degli investitori, pregiudica inevitabilmente i mercati in termini di efficienza: il loro corretto funzionamento deriva anzitutto dalla fiducia degli investitori nella correttezza della formazione dei prezzi degli strumenti finanziari e quindi dalla credibilità del mercato stesso.
LA SENTENZA RESPIGO
LA SENTENZA RESPIGO: CASSAZIONE PENALE, SEZ. V, N. 39999/2019 e LA NOZIONE DI “INFORMAZIONE PRIVILEGIATA”
Con la sentenza sopraindicata, la Corte di Cassazione procede all’annullamento con rinvio al giudice di merito della sentenza emessa in appello, che riconosceva la responsabilità penale del ricorrente per il reato di abuso di informazioni privilegiate (art. 184 T.U.F.). Il motivo della censura operata dalla Suprema Corte risiede nell’illegittimità del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato nei confronti dell’imputato R., il quale, essendo già stato sottoposto a sanzione amministrativa (a norma dell’art. 187-bis T.U.F., che contempla l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate) all’esito del procedimento amministrativo iniziato dalla CONSOB era stato successivamente condannato ad anni 2 di reclusione e alla pena pecuniaria.
Bisogna anzitutto, prima di entrare nel merito della sentenza, delineare il perimetro applicativo dell’informazione privilegiata, elemento fondamentale per comprendere la fattispecie di insider trading: nello specifico, occorre definire i confini della sua nozione, alla luce dell’abrogazione dell’art. 181 T.U.F. da parte del d.lgs. 107/2018, in seguito all’adozione del MAR (Reg. 2014/596).
Invero tale questione ha rappresentato nel caso di specie motivo di ricorso per violazione del principio di irretroattività della legge penale, riscontrando la difesa dell’imputato una violazione di legge nella scelta della Corte di Appello di Milano di ricondurre l’incarico di due-diligence (affidato alla società Deloitte, della quale l’imputato era socio senior) fra quelle attività idonee ad integrare un'operazione intermedia, che a sua volta può essere considerata rilevante come informazione privilegiata e dunque possibile presupposto della condotta di insider trading; ciò avveniva nonostante i fatti oggetto di imputazione fossero stati commessi in epoca anteriore all’entrata in vigore del “nuovo” 181 T.U.F., che, rinviando all’art. 7 MAR, include ora nella nozione di informazione privilegiata anche le notizie sulle fasi intermedie di un processo prolungato, che sono collegate alla concretizzazione o alla determinazione di una circostanza o di un evento futuri.
La Corte di Cassazione rigetta tale assunto, affermando che la nozione di “informazione privilegiata” applicata dal giudice dell’appello (improntata su quella definita nel MAR) fosse comunque conforme ad una consolidata giurisprudenza europea, che ha radici nella sentenza Daimler/2012 della Corte di Giustizia dell’UE, a sua volta conforme alla direttiva 2003/6. Pertanto, non si configura alcuna violazione del principio di irretroattività della legge penale.
ANALISI DELLA NOZIONE DI INFORMAZIONE PRIVILEGIATA (ART. 7 MAR)
Al fine di integrare il reato di insider trading, è necessario che il soggetto agente sia in possesso di informazioni:
1. «Aventi carattere preciso»; come tali devono intendersi informazioni riguardanti: «circostanze esistenti o che si può ragionevolmente ritenere che vengano ad esistenza (con elevata probabilità logica)»; «eventi verificatisi, ovvero dei quali si può ragionevolmente ritenere che si verificheranno»;
2. «Che non sono state rese pubbliche»;
3. «Concernenti, direttamente od indirettamente, emittenti o strumenti finanziari»;
4. «Che, se rese pubbliche, potrebbero incidere in modo significativo sulla variazione dei prezzi degli stessi strumenti finanziari a cui sono collegate» (c.d. informazioni “price-sensitive”): da intendersi come informazioni che «un investitore ragionevole utilizzerebbe come uno degli elementi su cui fondare decisioni di investimento» (già art. 181, comma 4 T.U.F. ed ora, similmente, art. 7, par. 4 MAR).
La Corte, analizzando le definizioni contenute all’art. 7 del MAR, giunge alla conclusione che la “nuova” nozione di informazione privilegiata sia in concreto del tutto sovrapponibile con quella previgente di cui all’abrogato art. 181 del T.U.F. (vigente al momento della commissione del fatto di reato oggetto d’imputazione), e che pertanto non si realizza alcuna violazione del principio di irretroattività della legge penale.
La Corte rileva che rientrano nel concetto di “informazioni privilegiate” tanto le “hard information” (fatti o circostanze storicamente accaduti), quanto le “soft information” (fatti o circostanze che, di per sé, non assumono valore privilegiante, ma possono assumerlo agli occhi dell’agente competente ed esperto di mercato, il quale, inserendo tali informazioni all’interno di una catena conoscitiva propria, fa sì che esse assumano valore rilevante e privilegiante).
Nella citata Sent. Daimler/2012, la Corte di Lussemburgo ha affermato infatti che, con riferimento ad eventi o circostanze che risultino essere frutto di una fattispecie complessa (a formazione progressiva), può costituire informazione privilegiata non solo la circostanza o l’evento finale, ma anche una sotto-fase intermedia della fattispecie complessa, necessaria alla realizzazione dell’evento finale.
Analizzando il caso di specie, secondo l’orientamento della Corte di legittimità, non può dubitarsi che costituisca informazione privilegiata anche la semplice informazione relativa all’imminente lancio di un’OPA, potendo questa far ragionevolmente prevedere un futuro ed immediato aumento di prezzo dei titoli di tali società, elidendo il rischio d’investimento.
Sulla base di un’argomentazione meramente letterale del diciassettesimo Considerando del MAR, la Cassazione statuisce che, essendo l’elenco delle attività intermedie, ivi contenuto, posto a titolo esemplificativo (e non tassativo), il semplice fatto che l’attività di due-diligence non sia espressa non ha alcun valore rappresentativo del fatto che questa non possa esservi ricompresa. Sulla base di un’argomentazione fattuale, la Corte di Cassazione oggettivamente afferma che non può essere condiviso l’assunto secondo cui l’incarico di due-diligence non ponga i soggetti incaricati in una posizione tale da poter venire a conoscenza di informazioni privilegiate.
L’incarico di due-diligence è quello che viene conferito dalla società acquirente (o che procede ad un’OPA) in favore solitamente di una società terza (specializzata in questo tipo di attività ovvero a società di investigazione aziendale e societaria), consistente nel compito di procedere allo svolgimento di attività investigativa nei confronti della “società target”.
Le operazioni di due-diligence si compongono di varie fasi:
1. Acquisizione dei dati rilevanti (economici e fattuali della società bersaglio), al fine di ridurre le “asimmetrie informative".
2. Valutazione della società target dal punto di vista patrimoniale, finanziario, contabile e reputazionale (analisi sulla situazione interna alla società e sulla situazione di mercato).
3. “Compliance check” (due diligence legale): un’indagine volta a valutare la “vita legale” della società target, (presenza in “black list”, liste antiterrorismo, liste PEP).
I benefici generalmente derivanti delle operazioni di due-diligence possono essere così riassunti:
• Miglior ponderazione, per la società procedente, dei propri interessi contrattuali prima di vincolare la propria volontà negoziale.
• Riduzione del “gap informativo” sussistente fra le società coinvolte nell’operazione economica.
• “Disclosure” di fenomeni criminali commessi in ambito societario (es. fenomeni di corruzione o di bancarotta).
Dalla natura stessa dell’incarico, appare evidente come l’attività di due-diligence possa validamente qualificarsi come “fase intermedia”, idoneamente rappresentando una «fase procedimentale di una fattispecie complessa a formazione progressiva». Questo aspetto è ancor più vero se si nota che solitamente, nel corso delle operazioni di due-diligence, nel momento della “disclosure” di informazioni da parte della società target si è soliti procedere alla firma di “accordi di riservatezza” (non-disclosure agreement).
IL RUOLO DI “INSIDER PRIMARIO”
Ulteriore questione sollevata dal ricorrente involge la qualificazione dello stesso come insider primario, ossia come soggetto attivo della fattispecie di cui all’art. 184 T.U.F.
In particolare, a detta della difesa, poiché R. non rivestiva alcun ruolo all’interno dello specifico incarico di due-diligence, non sarebbe riscontrabile alcun collegamento funzionale tra possesso dell’informazione e qualifica rivestita o attività svolta, richiesto invece dalla disposizione allorché testualmente reca la clausola “in ragione”.
La Cassazione ritiene di non dover dar seguito alla doglianza appena riportata e considera sufficiente a far acquisire a R. la qualifica di insider primario il fatto che egli era stato messo a conoscenza dell’andamento della due-diligence, anche alla luce dell’importante ruolo – quello di senior partner – rivestito all’interno della società di revisione.
IL RAPPORTO TRA INSIDER TRADING E PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM
Analizziamo ora un’importante doglianza avanzata dalla difesa del ricorrente – e accolta dalla Corte di Cassazione –, che attiene alla punibilità delle condotte di insider trading attraverso percorsi sia penali che amministrativi, richiamando dapprima la definizione autonoma di natura penale dettata dagli Engel criteria della giurisprudenza Europea, e poi la celeberrima sentenza grande Stevens – Italia del 2014.
In materia di abusi di mercato, in considerazione della coesistenza di un doppio binario sanzionatorio – penale e amministrativo “sostanzialmente penale”, alla luce dei criteri Engel – l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte Edu per violazione del ne bis in idem, sancito dall’art 4 del protocollo 7 della Cedu – e, in ottica eurounitaria, dall’art 50 della CDFUE –, motivo per cui il legislatore nazionale ha spesso evidenziato la necessità di assicurare il rispetto e l’operatività del principio del ne bis in idem a fronte di strategie di repressione basate sulla possibilità di perseguire sia penalmente che sul versante amministrativo gli autori dei reati finanziari.
Un mutamento importante rispetto alla sentenza Grande Stevens del 2014, che pareva aver sancito l’incompatibilità assoluta di qualsiasi meccanismo di double jeopardy, si è verificato con la sentenza A & B c Norvegia del 2016, in cui la Corte di Strasburgo introduce il criterio della sufficiently close connection in substance and time, escludendo la violazione del ne bis in idem ogniqualvolta: le due sanzioni perseguono finalità differenti; esistono meccanismi che consentono di tenere conto della sanzione già inflitta, moderando quindi la risposta sanzionatoria complessiva; i due procedimenti sono consecutivi oppure esistono meccanismi che consentano alla prova assunta in sede amministrativa di trasmigrare in sede penale e viceversa.
Spostando per un momento l’asse del discorso nella prospettiva eurounitaria, anche la Corte di Giustizia, nelle sue argomentazioni, riconosce la compatibilità del meccanismo del doppio binario sanzionatorio con il ne bis in idem qualora esso serva al conseguimento »dell’integrità dei mercati finanziari dell’Unione e la fiducia del pubblico negli strumenti finanziari»; dunque il procedimento amministrativo è volto a scoraggiare e reprimere gli abusi di mercato mentre quello penale a reprimere condotte altamente dannose e che giustificano l’adozione di sanzioni più severe, che si correlano al principio di proporzionalità sancito dall’art. 52 CDFUE.
Tali criteri hanno condotto le corti interne ad un rilettura sensibilmente riduttiva della portata del principio: la Corte di Cassazione attribuisce un ruolo determinante alla valutazione giudiziale di adeguatezza e proporzionalità della risposta punitiva complessiva.
Nella sentenza 39999/2019 della V Sezione della Cassazione penale, richiamando i principi stabiliti nel noto precedente Chiarion Casoni (Cass. pen., Sez. V, sent. 49869/2018), valutata positivamente la compatibilità delle procedure parallele di doppio binario, collegate secondo il criterio della sufficiently close connection in substance and time, si pone il problema di verificare la proporzionalità della sanzione complessivamente inflitta rispetto al disvalore dei fatti commessi, al fine di stabilire se detta sanzione deve essere riproporzionata ovvero se addirittura la rimodulazione della pena concretamente irrogata debba sfociare in una disapplicazione totale della sanzione inflitta per seconda.
La rimodulazione del trattamento sanzionatorio dovrà essere compiuta mediante una verifica che attenga sia alla pena principale che alla confisca ex art. 187 TUF ed alle pene accessorie.
Nel caso di specie, in sede di giudizio di rinvio, il confronto tra le sanzioni "doppie” inflitte nella procedura amministrativa definitiva ed in quella penale andrà rivisto tenendo conto anzitutto delle sanzioni principali inflitte in ciascun procedimento, valutando il cumulo della loro afflittività rispetto al disvalore complessivo del fatto, anche alla luce del comportamento collaborativo dell’imputato e della episodicità della sua condotta, in una carriera sinora sempre improntata alla correttezza professionale, circostanze delle quali dà atto la Corte d’Appello.
Infine, andrà adottato il meccanismo compensativo previsto dall’art. 187-terdecies essendo già evidente che la sanzione pecuniaria complessivamente inflitta in sede amministrativa (450.000 Euro) è di gran lunga superiore alla sanzione pecuniaria che segue al reato (pari a 50.000 Euro di multa).
Va peraltro notato che la Cassazione, seppur nel giudizio di proporzionalità includa comunque tutte le misure punitive, pare considerare l’art. 187-terdecies T.U.F. non nella formulazione vigente, bensì nella versione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. 107/2018, quando oggetto di compensazione potevano essere solo le sanzioni pecuniarie.
Ad ogni modo, l’interrogativo più delicato che discende dalla pronuncia interessa l’effetto di disapplicazione della sanzione penale in sé considerato (che nella sentenza sembra quasi avallato dal Collegio). Il giudice, con l’intento di salvare il sistema a doppio binario attraverso una manovra estrema finirebbe ineluttabilmente per cancellarne la stessa identità. Sarebbe difficile negare in questi casi la presenza di un reale effetto di neutralizzazione della scelta politico-criminale di adozione del doppio binario sanzionatorio, non potendosi infatti agevolmente considerare la sanzione amministrativa, applicata in via esclusiva, succedanea rispetto a quella penale quanto alla dimensione afflittiva e, in particolare, alla stessa portata stigmatizzante che (solo) di quest’ultima è propria.
Nonostante il coraggioso tentativo della Suprema Corte di elaborare un modello di commisurazione in proporzione della seconda sanzione, non siamo ancora prossimi alla meta: ossia, la definizione di una compiuta teoria della compensazione che sappia far luce su ogni aspetto dubbio della complessa questione figlia della giurisprudenza europea.
INNOVATIVITA’ DELLA “SENTENZA RESPIGO”
L’innovatività della sent. 39999 Cassazione penale, Sez. V, è apprezzabile sotto due distinti profili: l’interpretazione estensiva della nozione di “insider primario” e l’individuazione dell’art. 133 c.p. quale parametro per la valutazione circa la proporzionalità della sanzione complessiva rispetto alla gravità del fatto, richiesta al fine di garantire la compatibilità del doppio binario sanzionatorio previsto dalla normativa italiana in tema di abusi di mercato con il principio del ne bis in idem, così come risultante dalla giurisprudenza delle Corti europee.
Quanto al primo punto, la Corte di Cassazione, nell’apprezzabile tentativo di evitare pericolosi vuoti di tutela, ha riconosciuto in capo al ricorrente la qualifica di insider primario in virtù del ruolo di spicco, quale quello di socio senior, rivestito all’interno della società di consulenza, che lo rendeva «recettore e collettore delle singole attività di consulenza delle quali la società abbia ricevuto incarico ed alle quali pure non partecipi direttamente».
L’operazione esegetica messa in atto dalla Cassazione, volta a sanare attraverso un’interpretazione estensiva la mancata criminalizzazione di quanti utilizzino un’informazione privilegiata ottenuta non in forza di uno specifico incarico di consulenza loro affidato ma grazie alla prossimità con i destinatari di tale incarico, tuttavia realizza un’evidente forzatura dei confini letterali dell’art. 184 TUF e pertanto è stata oggetto di critiche da parte della dottrina.
La dottrina, infatti, in linea col dato normativo, ricomprende tra gli insiders primari soltanto i “corporate insiders” (coloro che svolgono funzioni o partecipano al capitale della società emittente) e i “temporary insiders” (soggetti temporaneamente coinvolti nell’attività dell’emittente in ragione di specifici incarichi) e pertanto ha sottolineato come la pronuncia in esame possa preludere al riconoscimento di una sorta di insider primario “da posizione”.
Quanto al secondo aspetto, occorre segnalare come la vicenda in esame fosse stata oggetto di un procedimento amministrativo grossomodo contemporaneo, conclusosi con il passaggio in giudicato della delibera della CONSOB di condanna del ricorrente per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate (art. 187-bis Tuf).
Ora, affinché il procedimento penale, concernente i medesimi fatti già sanzionati in sede amministrativa con sanzioni sostanzialmente penali a causa della loro afflittività, risultasse legittimo alla luce del principio del ne bis in idem, così come delineato dalla giurisprudenza della Corte Edu, era necessario assicurare la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto alla gravità del fatto.
Ebbene, la Corte di Cassazione, annullando con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, ha demandato al giudice di merito tale verifica e individuato l’art. 133 c.p. come parametro di riferimento.
In particolare alla Corte d’appello, chiamata ad accertare se la sanzione amministrativa esaurisca il disvalore del fatto ed eventualmente a disapplicare o rimodulare la sanzione penale, è stato prescritto di considerare l’incidenza del fatto sulla fiducia degli investitori nel mercato e l’impatto sul buon funzionamento di questo, ma anche tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi che influiscano sul rapporto tra sanzione e disvalore del fatto, tra cui il comportamento dell’imputato e l’episodicità della sua condotta.
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